IL
NO ALLA GUERRA DEL "POPOLO DEI POPOLI"
Michele
DI SCHIENA
Se
qualcuno di noi, ricco e potente, pretendesse di mettere le mani sui beni di
famiglia di qualche altro che vive nell'indigenza e che quei beni vende per
sfamarsi ed andare avanti; se qualcuno, dopo aver utilizzato per suoi oscuri
affari personaggi spregevoli e pericolosi, li volesse poi brutalmente far fuori
considerandoli ad un certo momento non più affidabili;
se costui, con ricatti economici e minacce di vario genere, tentasse di
costringere i suoi consimili a fare, loro malgrado, ciò che egli vuole e si
arrogasse nel contempo il diritto di stabilire ciò che è bene e ciò che è
male prescindendo dall'opinione dei più e dal pensiero di autorevoli cattedre
morali e religiose; se qualcuno, nella comunità in cui vive, avesse l'ardire di
farsi egli stesso legge e giustizia beffandosi di codici e tribunali; se
qualcuno, per i suoi disegni ed il suo tornaconto, irrompesse in casa d'altri
armato fino ai denti per uccidere, distruggere e terrorizzare e se poi, a fronte
di qualche disperata e perdente reazione dell'aggredito, invocasse regole che si
è messo costantemente sotto i piedi; se infine, costui si servisse di uno
stuolo servile di imbonitori per coprire i suoi torti e le sue nefandezze con
impudenti bugie e plateali stravolgimenti della realtà: ebbene, se uno di noi
facesse tutto questo diremmo che siamo di fronte ad una mostruosa incarnazione
dell'arbitrio, della violenza e della follia.
E
diremmo cosa assolutamente ovvia. Ora, dopo i conflitti e le speranze del
novecento e all'alba del terzo millennio, non è più possibile accettare che
le regole di civile convivenza, universalmente considerate valide nei
rapporti interpersonali all'interno delle singole comunità nazionali, non
debbano presiedere anche ai rapporti tra gli stati nell'ambito della comunità
internazionale. E questo spiega ciò che oggi sta avvenendo con la rivolta
dell'opinione pubblica mondiale contro la guerra scatenata dal governo
statunitense:
una ripulsa morale e civile che segna un mutamento di rotta, un radicale
cambiamento perché per la prima volta non un consesso di statisti, di giuristi
o di intellettuali ma un enorme movimento di
opinione, un "popolo
dei popoli" scende in piazza e chiede a gran voce, in ogni
contrada del pianeta, che la "Dichiarazione
universale dei diritti dell'Uomo", la Carta delle Nazioni Unite
e gli Statuti che ripudiano la guerra divengano il fulcro di un diritto
internazionale non più regolato su brutali rapporti di mera forza ma costruito
su principi e regole da tutti accettati e per tutti vincolanti. Un diritto
internazionale che può aprire la strada ad un "altro
mondo possibile": il mondo della vera globalizzazione, la
globalizzazione dei diritti in alternativa a quella
del dominio economico, dell'arbitrio e della violenza.
Ed
allora, mentre cade una pioggia di micidiali missili e di devastanti bombe sulle
martoriate sponde del Tigri e dell'Eufrate, mentre si muore e si piange per le
migliaia di caduti che la morte presenta nella loro umanità violata e nuda di
divise e bandiere, mentre la forza delle armi si prepara a cantare i lugubri
inni di una scontata (anche se meno facile del previsto) vittoria; mentre
guerrafondai e affaristi si apprestano a sedere intorno ad un tavolo per
spartirsi i moderni bottini fatti di petrolio e di dollari, i pacifisti ed i
costruttori di pace, dovunque collocati e comunque
denominati, avvertono che questo disastro non segnerà la "fine della
storia" perché il sistema che genera ingiustizia e guerra ha oggi mostrato
il suo volto più vero e più truce e perciò ha prodotto, come unico
"effetto collaterale" dai suoi fautori veramente non voluto, una
grande novità, un "popolo
dei popoli" che può cambiare il mondo.
Di
fronte alla cieca determinazione degli autori della guerra, nessuna
frustrazione, nessuna caduta di tensione civile: ogni bandiera esposta, ogni
segno di pace esibito, ogni partecipazione a
manifestazioni e proteste, è un gesto profetico, un piccolo grande atto
politico, un contributo prezioso offerto per la costruzione di quella nuova "superpotenza"
povera di mezzi e disarmata che invoca pace e solidarietà e tanto preoccupa i
"santuari" del superpotere economico e militare.
Brindisi, 29 marzo 2003