L'inferno può attendere
COSIMO ROSSI

Come tutto rinchiuso nella fortezza al confine del deserto dei Tartari, il mondo scruta l'orizzonte nell'attesa dell'attacco statunitense sui santuari del terrorismo e sulle tendopoli della miseria in Afghanistan. Se infatti non ci sono dubbi sulle intenzioni di passare prima o poi all'azione (obiettivo numero uno del Pentagono: il fantomatico laboratorio dove bin Laden si starebbe dotando di armi nucleari e batteriologiche), fonti ufficiali di Washington precisavano ieri che l'attacco non è imminente.
Il motivo di tanta prudenza da parte degli Usa è duplice. Da un lato c'è la necessità di raccogliere informazioni logistiche sui movimenti dei sostenitori di bin Laden in Afghanistan. Dall'altro la crescente difficoltà politica degli Stati uniti. Anch'essa duplice. Sul fronte della diplomazia internazionale c'è una parte consistente del mondo arabo che è pronta a sostenere la lotta al terrorismo ma non un'offensiva militare nei confronti di Kabul. Il Pakistan, che ha offerto collaborazione agli Usa, considera quello di Kabul un regime amico. Gli sforzi statunitensi di ottenere qualche appoggio dall'Iran sciita - affatto simpatizzante per i sunniti taleban - sono franati quando il leader religioso Ayatollah Ali Khamenei ha respinto ogni collaborazione. Anche l'Egitto, che si è confermato pronto a sostenere la lotta antiterrorismo, ha chiesto prove "effettive" su bin Laden.
A complicare la diplomazia è poi arrivato dall'Europa lo zelante premier italiano Silvio Berlusconi, che, con il suo sermone contro la civilità inferiore dell'islam, ha scatenato la protesta indignata della Lega araba; minando fra l'altro il viaggio diplomatico della trojka europea giunta ieri in Egitto e Siria per guadagnare collaborazione agli Usa. Tant'è che tutti i leader europei (vedi a pagina 4, ndr) hanno duramente rimproverato le parole del cavaliere.
Sul fronte interno degli Stati uniti destano invece molte perplessità le relazioni pericolose che Bush potrebbe intessere con i nemici di ieri come l'Iran e la Siria. Si consuma in altre parole il confronto tra la feluca di Collin Powell, che punta a costruire un fronte internazionale antiterrorismo coinvolgendo i nemici di un tempo, e i cannoni di Donald Rumsfeld, che preferirebbe agire in proprio contro l'Afghanistan.
La presenza sul territorio afghano di bin Laden è stata intanto confermata dallo stesso regime di Kabul. "Osama ha già ricevuto il messaggio con le raccomandazioni del consiglio degli Ulema", ha spiegato l'ambasciatore taleban a Islamabad, il mullah Abdul Salam Zaeef. La fatwa degli Ulema che invitava bin Laden a lasciare l'Afghanistan di sua sponte era stata emessa il 20 settembre.
Proprio per ottenere informazioni sui movimenti di bin Laden, una delegazione militare statunitense si era recata nei giorni scorsi in Pakistan, mentre verso l'area continuano a affluire truppe e navi con a bordo anche armamento nucleare tattico. Ieri, al termine della visita, il generale Rashid Quereshi, portavoce del presidente pakistano Pervez Musharraf, spiegava comunque che nei colloqui non si è parlato di alcun "piano militare". Oggi dal Pakistan partirà anzi una nuova delegazione composta di esponenti del governo e funzionari religiosi, con il compito di ritentare la mediazione diplomatica fallita lo scorso 17 settembre. Secondo l'agenzia Afghan islamic press la delegazione pakistana dovrebbe recarsi a Kandahar per portare "numerosi messaggi" al leader taleban, il mullah Omar. Ma che venga consegnato bin Laden è improbabile.
Dagli Stati uniti potrebbe partire anche il reverendo Jesse Jackson. Benché per adesso neghi di avere in programma un viaggio in Afghanistan, Jackson non è nuovo al ruolo di mediatore. I taleban dicono che è stato lui stesso a offrirsi, mentre Jackson afferma di essere stato contattato da Kabul. Fatto sta che potrebbe giocare un ruolo utilizzando il pretesto di un intervento in favore di due cittadini statunitensi tenuti in ostaggio dai taleban insieme a altri sei volontari delle Ong.

da "il Manifesto" del 28 settembre 2001