Il fantasma della nuova destra totalitaria in Europa di Lanfranco Caminiti da Nonluoghi

Il fantasma di una nuova destra violenta e totalitaria si aggira per l'Europa: accade in Spagna, in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Belgio, in Austria, in Italia, nei Balcani, in Ungheria, nel Baltico, in Russia.

È una destra sociale, è una società di destra, è una eversione sociale. E' un'Europa di destra. Essa ha sfumature diverse, preminenze diverse: di regionalismo in Belgio e nel nord Italia, di nazionalismo in Francia e in Austria, di aperto razzismo nel Baltico, in Germania, in Inghilterra. Questa nuova destra è eversiva, benché spesso usi anche gli strumenti e le forme della democrazia rappresentativa. E' già accaduto così. Essa appartiene per intero - per tradizioni, riferimenti, storia - alle ideologie del fascismo, del nazismo, del franchismo e alle variazioni sul tema che il novecento europeo ha già elaborato, conosciuto e vissuto. Come accadde per quelli, non v'è un disegno comune: le contingenze del proprio territorio e della propria storia nazionale hanno la prevalenza: vi sono rimandi, intrecci, reciproche conferme di successi e di poter osare di più, ma nessuna pianificazione comune d'insorgenza. A volte attriti superficiali anche, che non contano nulla.

Il vento che la sospinge sta in una spinta reazionaria, "a destra", di classi sociali, ceti, elités, poteri forti e micropoteri, apparati, idee e opinioni diffuse nell'Europa intera. Sta in una risposta difensiva e aggressiva di fronte ai carichi della globalizzazione economica e politica, dell'Impero, dello strapotere degli Stati uniti, della costituzione dello spazio europeo. Di fronte all'emergere di nuovi conflitti, nuovi diritti, nuovi soggetti. È una destra sociale, è una società di destra, è una eversione sociale. E' un'Europa di destra. La sua spinta eversiva è più larga delle forme istituzionali assunte dalla destra conservatrice, benché spesso con questa si veicoli. Le sue rappresentazioni politiche sono ancora minoritarie e talvolta ridicole. Ma questo non rassicura per nulla: così è sempre stato, all'inizio. Questa nuova destra eversiva si colloca a fianco o dentro la destra istituzionale. Essa alligna in paesi governati dal centro-destra e dal centro-sinistra, senza preferenze. Negli uni e negli altri ha goduto della progressiva eliminazione di alcuni "tabù" che relegavano nella marginalità, nel sottobosco, nella periferia, argomentazioni, simboli, bandiere. Non v'è alcun filo organizzativo diretto tra destra sociale eversiva e destra conservatrice politica e talvolta una distanza aperta e limpida: nonostante questo, il confronto con gli "umori" sociali e i calcoli della politica hanno portato o possono portare a collaborazioni strette, quando non a vere e proprie alleanze e patti. Ciò che accomuna le destre non sono le "fonti" né gli "strumenti" ma l'elencazione dei problemi. E le risposte.

Vi è in Europa una evidente crisi della democrazia rappresentativa, di quei sistemi sociali e parlamentari nati dalla seconda guerra mondiale o che dopo essa si rafforzarono o che a questa sono arrivati più recentemente [come la Spagna, il Portogallo, l'area dei Balcani, la Russia]. Questa crisi ha manifestazioni diverse, che vanno dalla crescente disaffezione verso lo strumento elettorale alla caduta delle iscrizioni ai partiti costituzionali, dalle polarizzazioni nelle rappresentanze estreme all'emergere di valori identitari di comunità ridotte o più larghe che escludono, quando non si contrappongono apertamente, i fondamenti della cittadinanza e della democrazia, il "pubblico", il "comune". I valori del sangue e della terra riemergono qui e là come fondativi di nuove appartenenze. La democrazia rappresentativa non riesce a governare la complessità di nuove questioni: molte di queste questioni rimangono senza rappresentanza, messe ai margini o tamponate, quindi deboli istituzionalmente ma perenni e "fastidiose" socialmente, ferite aperte. La destra eversiva si pone come riduzione drastica della complessità, semplificazione: appare, socialmente, come una risposta "forte". Come una soluzione estrema ma necessaria.

Ma - e questo è il punto - per opporsi a questa spinta sociale di destra non è sufficiente "mettere al lavoro" la memoria iconografica - la lotta al nazismo e la liberazione dal fascismo -, la memoria istituzionale: e intendo per memoria istituzionale quel richiamo a momenti della storia da cui sono nate istituzioni, una memoria "fondativa", una memoria politica [fondatrice del "pubblico"], costituzionale. Non è sufficiente richiamare ai valori e ai diritti delle costituzioni europee che in quella lotta e in quella liberazione trovano fondamento. La memoria iconografica può servire a opporsi ai fenomeni della destra politica: dovrebbe servire alle sinistre per evitare rissosità, personalismi, frantumazioni, massimalismi e aventini; dovrebbe servire ai  "centri" per evitare ammiccamenti e patteggiamenti, aperture e complicità. Tutto questo è già accaduto, fa parte della storia dei partiti politici europei. Ma la memoria istituzionale è assolutamente inadeguata per opporsi all'eversione sociale, alla destra sociale. Così, a esempio, un pur ragionevole appello alle destre e alle sinistre istituzionali d'Europa a riconoscersi insieme nei valori dell'Europa democratica e fare argine ai fenomeni eversivi e totalitari, può essere solo una riaffermazione di quel che già c'è. E è in crisi. L'eversione di destra è un fenomeno sociale vasto e profondo, radicale. La chiamata a raccolta delle istituzioni non lo scalfisce minimamente e non ha effetti a cerchi concentrici. Certo, può lavorare sulle ambiguità di alcune istituzioni, di corpi separati, di nicchie civili e militari, per quegli effetti di ordine che qualunque gerarchia politica costruisce dall'alto verso il basso. Ma è questo "umor nero" sociale e reazionario che va combattuto. E capito anche. Guardato in faccia guardando dentro casa. Siamo sull'orlo di una possibile catastrofe. La memoria delle catastrofi accadute non risparmia dai suoi nuovi avventi.

V'è un punto sostanziale che è stato ripetutamente evidenziato nei commenti di "sorpresa" dopo il primo turno elettorale in Francia e è il forte sostegno al lepenismo dato dal mondo del lavoro [occupati, disoccupati, semi occupati, ex occupati]. In realtà, questo è un tratto comune che era già possibile rintracciare in Italia, con la Lega, nei paesi di lingua fiamminga, nell'ex Germania dell'Est, in Russia, nel nord dell'Inghilterra. E' proprio dentro il mondo del lavoro che la nuova destra elenca problemi e dà sue risposte: l'introduzione delle 35 ore in Francia può essere esemplare. Essa, benché parziale, mostra la possibilità di allentare la morsa della schiavitù del lavoro salariato: ma è proprio sull'accumulazione di ricchezza e sulla sua distribuzione, sul ruolo sociale del "lavoro" che si scatena la guerra civile dentro il lavoro: la destra risponde spezzando la cooperazione produttiva e proponendo un mondo di "bianchi" serviti da "negri" schiavizzati al lavoro. Certo, è possibile liberarsi dal lavoro, e è ormai senso comune che la produzione è regolata dal dominio, è essa stessa regola di dominio: il mercato è una bubbola grande grande. La questione è: come godiamo, come ci ripartiamo la ricchezza che siamo in grado di produrre? E sta proprio nella risposta di schiavitù razzista la proposta della destra, mostruosa nella sua concezione ma moderna nel suo problema.

Che ruolo sociale avrebbero mai gli "operai" in una società che allenta il vincolo del lavoro? Eccola la risposta della destra. I "negri" ci servono, certo: svolgano le mansioni umili del lavoro, spazzino le strade, puliscano il culo agli invalidi, si arrampichino su instabili impalcature, spostino pezzi in fabbrica: ma vi sia una gerarchia del lavoro chiara, in cui rimanga ai "bianchi" la parte del controllo e dell'intelligenza, del potere sul lavoro. Il lavoro "negro" rimanga senza cittadinanza e solo il lavoro "bianco" sia status di cittadinanza, di diritti, di godimento, di partecipazione, di felicità. C'è una differenza evidente con il fascismo e il nazismo [anche una "ricorrenza": si dimentica spesso che nazionalsocialismo e fascismo avevano supporto "dentro" il lavoro]: in quelle forme totalitarie lo Stato assunse in sé, concentrò, semplificò quello che era il dispostismo della produzione di fabbrica, di quella fabbrica fordista e taylorista: il sostegno pubblico della domanda [fino alla sua forma estrema e suicida, la guerra] era la chiave di volta. Qui, il dispotismo non è nella produzione, che invece abbisogna di una continua cooperazione: il dispotismo è introdotto - ferinamente - sulla ricchezza della produzione, è introdotto socialmente. E non passa attraverso la forma-Stato: si vive in territori regionali, in aree, in quartieri addirittura.

In nessun paese europeo vi sono fenomeni profondi di crisi economica: vi sono enclavi di crisi, a volte di interi territori precedentemente "specializzati" industrialmente - come delle monocolture -, a volte di classi sociali che vengono ricacciati in una zona marginale, in disuso, in dismissione, come una popolazione sovrannumeraria. E' proprio qui - non v'è microcriminalità "negra", non vi sono slavi che si ubriacano e bivaccano molestando le donne - che la "sorpresa" del risultato lepenista, a esempio, mostra tutt'intera quanto le sue radici stiano appunto nelle questioni del lavoro, del lavoro come ricchezza, del lavoro come status di cittadinanza. Qui, sul confine tra lavoro e non-lavoro. Quel confine dove vengono rigettati i "bianchi" in sovrannumero, dove vengono accolti i "negri", dove la produzione è dominio e ordine, controllo dei corpi e delle vite, incertezza e instabilità, mancanza di rappresentazione. La risposta d'ordine sociale risponde a una produzione e a una ricchezza che sono direttamente sociali.

La democrazia industriale - la sostanza propria della democrazia rappresentativa - è in crisi rispetto a una produzione che non è più "industriale" [o non lo è solo]. Se altrove questa crisi assume forme aperte di governo mediatico, di esautoramento e svuotamento delle istituzioni con preminenza dell'ordine decisionale dall'alto, di governi-ombra o governi sovra-nazionali con istituzioni mondiali che controllano e stabiliscono le "forme" della socializzazione, in Europa questi fenomeni - già presenti - possono essere il lievito verso soluzioni più radicali e definitive di conclamati regimi totalitari. E' la sua storia.

Ma, di nuovo, la "memoria istituzionale" messa al lavoro serve a poco: a poco serve il richiamo alla Resistenza europea, alla democrazia liberale, agli ambigui concetti di nazione, di bandiera. La democrazia "liberale" è già in crisi, non fa argine; e la Resistenza è un fenomeno [peraltro complesso storicamente e non univoco] che si dispiega nel "post", sul crinale della fine di un regime, e non nel tempo di un sistema che va crescendo, organizzandosi, acquisendo forza. Il suo valore evocativo è importante per quel richiamo all'attenzione, al coinvolgimento, al prender parte, al carattere "morale" dell'indignazione. Ma è del tutto impolitico. Non costruisce "altro" ordine [lo dico, non per riproporlo ma per spiegarne la valenza, nel senso del gramsciano "ordine nuovo"].

Stupisce poi che la memoria "nazionale" continui a vivere di una cesura più che cinquantennale [ritrovando solo nella lotta al terrorismo e nella lotta alla mafia i suoi altri momenti "alti", di spirito pubblico d'un paese]. E stupisce - e questo è un nodo di questo testo - che portatori di questa cesura si facciano quella fascia di intellettuali pubblici [giornalisti, commentatori televisivi, uomini di cinema  e teatro] le cui radici di vita e militanza stanno in un altro tempo che quello della Resistenza, stanno negli anni Sessanta, nel Sessantotto principalmente. Se non altro per questioni di età, la "biografia" degli intellettuali pubblici italiani [dei diversi schieramenti persino] lì è radicata. Ma anche quella di capi di partito e di sindacato, di dirigenti della cosa pubblica, di sindaci, di amministratori, di chi ha, in qualche modo, "potere".

Il Sessantotto, il biennio operaio del '68-69, il movimento delle donne e il Sessantasette continuano a essere considerati poco più o poco meno che fenomeni generazionali o di genere. "Esplosioni" sociali che appartengono alla fenomenologia, non alla storia, alla memoria sociale. Essi sono memoria irrisolta, lacerata, non condivisa, privata non pubblica.

Eppure, è proprio qui, nell'onda lunga di questi movimenti - e nei modi in cui questi movimenti si sono radicati e articolati in questo paese, costituendo quel "laboratorio Italia" che in questo momento avrebbe più che mai bisogno d'essere studiato e capito come "valore europeo" - che si sono manifestate tutte le questioni che oggi sono socialmente evidenti: la crisi della democrazia rappresentativa e l'emergenza di nuove forme di partecipazione sociale, di un nuovo "spirito pubblico"; la fine del lavoro industriale e l'emergere di nuove forme del lavoro; l'affermazione del salario come un diritto privato e pubblico e non come una merce legata alla produzione e al suo controllo; l'irruzione del sapere nella vita sociale di massa e nella produzione, con il configurarsi di una nuova figura produttiva, l'intellettuale di massa; l'esplosione di nuovi "bisogni" e l'urgenza di una loro soddisfazione non più legata alla condanna "a vita" al lavoro; la spettacolarizzazione della politica e della vita pubblica in genere; l'emergere di nuovi diritti legati al corpo, alla riproduzione, alla biopolitica [alla vita come parte intera della produzione e dello spazio pubblico] come esigenza sociale e non solo dei produttori.

Sono questi movimenti, che hanno affiancato, anticipato, si sono opposti o hanno favorito le grandi trasformazioni produttive e del consumo, e quindi delle relazioni sociali, che possono essere "memoria messa al lavoro" per fronteggiare la crisi della democrazia industriale e la risposta che a essa dà la nuova destra eversiva e totalitaria. Non c'è mai stata più Europa del periodo delle lotte innescate dal maggio francese e dalla "swinging London", non c'è mai stata più Europa del periodo delle lotte operaie a Colonia e Torino, a Lille e Manchester, non mai c'è stata più Europa delle speranze aperte dalla primavera di Praga e del sostegno che i movimenti sociali diedero a quelle speranze come lo diedero agli operai di Danzica aprendo quel lungo ciclo che portò alla fine del "socialismo reale", non c'è mai stata più Europa del periodo della diffusione del punk, delle culture giovanili del disperato "no future".

Di quella Europa io mi sento patriota. Di quella Europa. E' nella "memoria" di quei movimenti che si ritrovano tutte intere le ragioni dei nuovi movimenti sociali, quelli che si oppongono alla globalizzazione del dominio e della finanza inerte. Ma, soprattutto, è nella "memoria" di quei movimenti che si ritrovano risposte di una diversa democrazia, di una diversa articolazione dello spazio pubblico, di una diversa partecipazione civile alla cosa pubblica, di una diversa produzione di ricchezza e distribuzione della stessa, di un diverso corpus di diritti che proteggano e diano consistenza pubblica alla nostra nuda vita privata. Certo, quei movimenti ebbero spesso soluzioni disastrose, concrezioni del fare politico dannose e disgregatrici, furono comunque "vinti" e contribuirono non poco a essere "vinti". Come tutti i grandi fenomeni storici irrisolti le interpretazioni si sprecherebbero e si sprecano e forse interessano poco adesso, anche se la loro scarsa adattabilità a interpretazioni univoche può essere fonte di fertili argomentazioni, di nuovo cipiglio. Invece, proprio il riaffondare le mani fino al gomito in quella "memoria" viva torna utile oggi, per il fare, per opporsi alla nuova destra, per immaginare soluzioni di questa crisi europea - non facile, non breve, densa di oscuri presagi - in un "salto in avanti" della democrazia, del vivere sociale, della produzione.

Non elenco qui i nodi politici che andrebbero affrontatati - non sono in grado di farlo e, più che altro, questo è un intervento di storiografia e sulla "rimozione storica". Né intendo contrapporre scioccamente la memoria della Resistenza - come fosse ormai solo un reperto, e di cui ho già riconosciuto il valore evocativo - a una più viva e irrisolta memoria degli anni sessanta e settanta, più diretta alle questioni aperte, più vicina. Più "utile".

Il richiamo a un "fronte unito" contro la destra eversiva mi appare persino come una pregiudiziale sacrosanta, in cui ciascuno rinuncia a qualcosa per capire le ragioni del momento. Forse non basta. Altre volte non è già bastato.