DOPO L'ATTACCO Tre giorni dopo il delirio terroristico che ha infranto la
certezza dell'invulnerabilità degli Stati Uniti, l'interrogativo che più
colpisce la nostra sensibilità, e che invece più ossessivamente viene
ripetuto, è: come e dove si materializzerà la vendetta del governo di
Washington?
Il vicolo cieco della vendetta
GIANNI MINA'
E' una domanda che rivela, infatti, la certezza che "queste cose si possano
risolvere solo con la forza". Occhio per occhio, dente per dente. Eppure
sono davanti agli occhi di tutti le immagini quotidiane dell'irrisolvibilità
della questione palestinese, un simbolo non solo dell'impotenza che l'odio
produce, ma anche della sconfitta della politica quando sceglie la strada della
repressione invece di quella della ragionevolezza.
E' chiaro, dopo che gli Stati Uniti sono finiti ostaggio di un incubo da film di
Bruce Willis o da romanzo di Tom Clancy che la politica della forza, in questo
momento di cambio epocale della politica, non paga più e la tragedia di ieri è
anche la sconfitta dell'atteggiamento di distacco, per non dire di arroganza,
tenuto nei suoi primi mesi di presidenza, da George Bush junior riguardo a molti
conflitti internazionali e a molte ferite del mondo.
Quando il paese leader della democrazia occidentale rifiuta, come abbiamo
scritto l'altroieri, la firma su accordi di grande valore etico e pratico come
la lotta all'uso delle armi chimiche, all'uso delle mine antiuomo, come la
creazione di un'autorità internazionale che giudichi i delitti di lesa umanità,
a meno che non rimangano impuniti gli eventuali crimini di funzionari
nordamericani, è possibile che si innesti nell'animo di popoli offesi dalla
storia o più precisamente di gruppi suggestionati da deliri religiosi o
ideologici, una insensata voglia di rivalsa a qualunque costo, a qualunque
prezzo. Dalla strage di cittadini innocenti all'autodistruzione in nome del
paradiso che raggiungeranno, immolandosi in un folle atto dimostrativo.
Già il giorno dopo l'attacco terroristico qualcuno nel mondo arabo fra
impudiche scene di gioia, ha commentato che l'operazione compiuta dai terroristi
a New York e a Washington era stata "chirurgica". E' stato inevitabile
il paragone con le famose "bombe intelligenti" che, nel 1991,
indirizzate su Baghdad avrebbero risolto "chirurgicamente" il problema
di liquidare il regime di Saddam Hussein. L'operazione decisa da George Bush
senior, il padre dell'attuale presidente degli Stati Uniti, non eliminò però
il dittatore Saddam, fece solo migliaia di vittime (donne e bambini) innocenti
come quelle rimaste sepolte sotto le macerie delle Torri gemelle di New York e
sotto i calcinacci del Pentagono a Washington.
Qualcuno dei tanti consiglieri che ha, dovrebbe quindi ricordare a George Bush
junior non tanto il fallimento della strategie anti-Saddam del padre quanto di
un modo di confrontarsi con le contraddizioni del mondo. Perché il mostro
Saddam, come i talebani dell'Afghanistan che ora "coprono" Bin Laden,
maggior indiziato dei tragici attentati di lunedì, sono frutto purtroppo degli
interessi politici degli Stati Uniti. Nel primo caso per poter mortificare
l'Iran di Kohmeini, nel secondo per sloggiare dall'Afghanistan i comunisti
sostenuti da un'Unione Sovietica ormai al tramonto. E non meno esplicativa è la
storia della guerra del Golfo, che come unico risultato, dieci anni fa ottenne
quello di riportare al potere in Kuwait uno sceicco che, infischiandosene dei
diritti umani, la prima cosa che fece dopo il ritorno, fu quella di torturare e
uccidere i suoi avversari politici senza processi di sorta.
Anche se ogni giorno si fa di tutto per esautorarlo, esiste l'Onu per
neutralizzare e bloccare con sanzioni e con iniziative politiche i paesi che
allevano e coltivano il terrorismo. La storia recente della Libia, costretta a
consegnare alla giustizia inglese i responsabili della strage di Lockerbie, è
emblematica in questo senso. Così come esistono altre opzioni per affrontare la
fatica della maggior parte dell'umanità e l'ingiustizia sociale che spesso
produce reazioni violente.
Il mondo che viviamo, se avesse leader politici lungimiranti e prestigiosi come
in un recente passato, dopo la paura della grande guerra, avrebbe sicuramente la
capacità di un altro approccio con le attuali ferite del mondo e sarebbe forse
perfino capace di imporre un'economia dove la ricchezza fosse più equamente
ripartita e una grande potenza non potesse ideare e mettere in marcia, come
hanno fatto gli Stati Uniti, un 'Plan Colombia' o un 'Plan Africa' che la stessa
comunità europea ha respinto perplessa giudicando il primo troppo marcato da
finalità militari e il secondo palesemente distruttivo per la sopravvivenza del
continente nero.
I paesi del nord del mondo e le multinazionali che condizionano ormai
chiaramente le scelte dei governi occidentali sembrano invece non capire il
cambio dei tempi, la crisi della vecchia politica dei partiti e sembrano non
saper rispondere con equilibrio e buon senso alle urgenze poste dai nuovi
scenari che il mondo attuale propone. Dal movimento anti-global alle grida
d'allarme per la fame che aumenta nel mondo, alle richieste di chi si è riunito
a Durban per affrontare il dramma di un razzismo ancora imperante dieci anni
dopo la fine dell'apartheid in Sud Africa.
Il mondo che si autodefinisce civile e democratico, pur annichilito dalle
immagini tragiche che arrivavano via satellite dagli Stati Uniti, non sapeva
fare altro, in tutti i notiziari radiotelevisivi, che chiedersi quanti punti le
borse stavano perdendo per gli effetti degli attentati al cuore della potenza
leader del pianeta. E' superfluo ricordare che questo era un problema che
riguardava solo i paesi abbienti, perché per gli altri non è cambiato nulla,
salvo la paura che il domani possa essere ancor più portatore di violenza per
chi, anonimo essere umano, vive nel mezzo di una sfida che sembra diventata
infernale. (g.mina@giannimina.it)